Natalia Ginzburg |
Nel maggio scorso si è tenuto a Torino il ciclo Natalia Ginzburg (1916-2016). Storia di una voce, curato da Giulia Cogoli: nella terza serata di lettura Lella Costa ha letto scene da Ti ho sposato per allegria e il monologo La parrucca, per poi concludere con un fuori programma: la poesia Memoria, che Natalia Ginzburg scrisse nel 1944 in ricordo di Leone Ginzburg. Prima dello spettacolo, Lella Costa aveva rilasciato un’intervista al canale televisivo Sky 3D. Una parte di quell’intervista per concessione di Sky 3D e Lella Costa è stata pubblicata dall’«Indice dei libri del mese» nella rivista cartacea e nel sito, da cui l'ho ripresa. (S.L.L.)
Lella Costa |
La mia Natalia Ginzburg è un ricordo dell’adolescenza ed è legata a Lessico famigliare, che è stato uno dei libri della mia vita perché ha significato la scoperta entusiasmante, inebriante direi quasi, di una possibilità di raccontare la vita, le persone, le relazioni – addirittura un mondo e una temperie culturale, etica e morale – con le parole parlate; senza banalizzare, senza svilire, senza neanche il vezzo di chi abbassa deliberatamente il livello del discorso. Questa confidenza con la cultura, con la letteratura… è stato un grande regalo scoprirla in quel modo lì. Ho quasi invidiato la famiglia Levi, che è stata per molto tempo, inconsciamente, un mio modello; e la frase «non riconosco più la mia Germania» la dico tuttora. Ecco, quando un libro entra nel tuo linguaggio, nel tuo lessico famigliare, credo che possa essere a tutti gli effetti considerato un grande classico.
La voce del padre
Delle tantissime voci di Lessico famigliare, curiosamente forse, quella che mi è rimasta di più nella memoria – anche perché aveva certi modi di dire coloriti e soprattutto perché gridava – è quella del padre, come se l’avessi conosciuto bene: non dico un amico, perché il professor Giuseppe Levi incuteva il massimo rispetto, certo però un uomo che mi sarebbe piaciuto molto conoscere e di cui credo di aver proprio sentito la voce. Come Giovanna d’Arco (tra un po’ vado a liberare Orléans) ho sentito la voce del papà di Natalia.
Credo di avere capito cos’è che ho anche molto invidiato in una figura come la Ginzburg: l’ho scoperto attraverso la definizione di un altro piemontese eccellente, Paolo Conte, quando parla di «tenerezza internazionale». Ecco, secondo me lei, i suoi, quelle famiglie lì, quel coraggio di buttarsi in situazioni e in luoghi, a volte per forza (penso al confino), a volte per amore di figli che vanno a vivere in America, appartengono a una dimensione internazionale che non prescinde né dimentica né, peggio, nasconde le proprie origini. Io sono nata a Milano, e ci vivo, però le origini della mia famiglia sono piemontesi e quindi mi sembra di ritrovare in quelle voci una speciale familiarità, una possibilità di riconoscere davvero quella lingua.
Credo che il suo punto di vista abbia sempre tenuto conto dello sguardo delle donne, anche quando raccontava storie in cui queste non erano pazzamente simpatiche o pazzamente intelligenti e forse non le piacevano nemmeno.
Quanto a lei, ho il grande rimpianto di non averla conosciuta, però conosco bene la sua sobria generosità di sé, la sua totale mancanza di tirchieria nelle proprie opinioni, nelle prese di posizione. È stata una donna estremamente combattiva, ha scritto cose mirabili su temi sociali – negli ultimi anni della sua vita, quando era parlamentare, per esempio – dando una grande lezione di etica, di coerenza, ma anche (non voglio dire «buon senso» perché sembra di sminuirla) del senso della condivisione del bene comune. Basta rileggere quello che scriveva, a metà degli anni ottanta, sul concetto di famiglia e su chi si incaponisce a darne delle definizioni.
Non so se la sua scrittura si possa definire una scrittura femminile. Credo che lei per prima abbia avuto qualche difficoltà a ritrovarsi in questa definizione, e comunque, pur dichiarandosi più volte totalmente a favore delle battaglie delle donne, non si è mai riconosciuta nei movimenti femministi. Però credo anche che il suo punto di vista abbia sempre tenuto conto dello sguardo delle donne, anche quando magari raccontava storie in cui queste non erano pazzamente simpatiche o pazzamente intelligenti e forse non le piacevano nemmeno. C’è una definizione che ha dato spesso dei suoi personaggi femminili: «randagia». Ecco, a lei piacevano molto queste figure di donne, di ragazze, che sono un po’ cani perduti senza collare, sempre in cerca, sempre in movimento; oppure figure femminili terribili, però con questo dono meraviglioso dell’ironia, a volte persino del grottesco. Soprattutto nei suoi scritti per il teatro, la parte meno conosciuta della sua produzione: Ti ho sposato per allegria, di cui credo si ricordi soprattutto la versione cinematografica, che ha avuto anche un certo successo, o il monologo La parrucca, che è Alan Bennett con cinquant’anni d’anticipo. Sono testi pieni di ironia, surrealtà e però anche capacità di ritrarre delle situazioni, delle relazioni, degli ambienti familiari, sempre con quel tocco di svagatezza che è una delle qualità vocali, insieme ai toni molto profondi, di Adriana Asti, per la quale è stato scritto Ti ho sposato per allegria; ma ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto vederlo interpretato anche da una Rina Morelli giovane, un’altra voce con questi toni appunto svagati, surreali, distratti ma non artefatti. Sono personaggi in cui, per un’interprete, non gioca tanto l’immedesimazione quanto la sfida e la possibilità di trovarci un’infinità di toni, di spunti, di invenzioni, perché quella che hai a disposizione è una straordinaria tavolozza sonora.
Memoria, invece, è una poesia che ho trovato in un’antologia del ginnasio e che quindi conosco da parecchi anni; da allora mi ha segnato come un modo straordinario di raccontare un dolore molto privato, la perdita di un uomo molto amato, con una sobrietà e un’intensità che rare volte mi è capitato di ritrovare. Mi sembra una voce perfettamente inserita in quel manipolo di eroi della cultura e della letteratura italiana che Natalia Ginzburg frequentava in quegli anni; ha una cadenza narrativa che ricorda tantissimo Pavese e quindi anche qualcosa di nobilmente piemontese che tocca le mie radici: sobrietà, esattezza, rifiuto dello sperpero di parole inutili. Per questo, alla Ginzburg teatrale, se vogliamo più lieve e più moderna perché le commedie sono state scritte dopo, mi è piaciuto affiancare una poesia di grande intensità, di enorme dolore, che credo possa essere anche un bellissimo momento di condivisione. Il lutto è una cosa che nella vita prima o poi ci tocca: far sentire che si può affrontarlo e condividerlo così, mi è sembrato il modo giusto di rendere omaggio a questa straordinaria ragazza.
da Indice dei libri del mese, ottobre 2016, Speciale Natalia Ginzburg