Fonte: Ernesto Paolozzi da la Repubblica Napoli
Dalle prime dichiarazioni di alcuni esponenti del Partito democratico campano, sembra che l'uragano che ha travolto il governo Renzi e, in parte, il Pd, sia stata soltanto una fastidiosa vento di tramontana. Fosse questa l'analisi del voto, lo dico con profonda amarezza e non senza preoccupazione, il Partito democratico sarebbe già avviato sul sentiero della sconfitta elettorale e, forse, della dissolvenza. Il meno che potrebbe accadere sarebbe una devastante scissione. Il che potrebbe anche non preoccupare un cittadino non iscritto o non simpatizzante del Pd se non fosse che, all'orizzonte, non si intravedono alternative sulle quali poter contare con una certa serenità. Invece penso che si debba riflettere, con generosità prima ancora che con attenzione. Innanzitutto i dirigenti del partito, di quel che resta del partito, dovrebbero dimettersi (come, del resto, ha fatto Renzi, con l'unico gesto che ha incontrato il favore di tutti), per consentire, finalmente, ad iscritti e simpatizzanti di confrontarsi e discutere: sul passato e sul futuro. Una riflessione dovrebbero aprirla le cariche istituzionali, a cominciare dal presidente De Luca, che sembra aver riconosciuto che questa fase richiede, innanzitutto, umiltà, accennando forse in tal modo, ad una rigorosa, quanto necessaria, autocritica. È difficilissimo, naturalmente, in una fase così delicata, tracciare una linea politica alternativa allo sfascio al quale ci ha condotto una dissennata, tracotante ed infantile campagna referendaria.
Ma qualche spunto per la riflessione è doveroso proporlo. Ad esempio: bisognerebbe prendere atto che la comunicazione, in sé e per sé non basta. Viene anzi il momento che essa raggiunge l'effetto diametralmente opposto. Narrare che in Italia, in Campania o a Napoli, le cose stanno andando bene a colpi di battute e sketch più o meno efficaci non ha senso se la disoccupazione giovanile colpisce ormai quasi ogni famiglia, se la sanità pubblica e i trasporti deperiscono e declinano in un rovinoso ritorno agli anni Cinquanta. Non si può sostenere, con arroganza, che forse non si è riuscito a far comprendere ai docenti quanto buona fosse la "Buona scuola". Perché viene spontanea la risposta: "Più probabile che siate voi, forse, a non aver compreso nulla della scuola italiana". A dirla in altro modo, potremmo anche sostenere che il populismo che fa leva, con un certo cinismo, sul malessere profondo della popolazione non si può battere con il populismo di governo, delle false narrazioni, delle battute ad effetto, dei comizi politici trasformati in show televisivi nei quali perfino il linguaggio del corpo ispira antipatia. Altro tema di riflessione, che chiama in causa la mia cultura politica, è quello del riformismo da opporre al populismo. Dobbiamo prendere atto che il riformismo fiorito negli anni a cavallo del nuovo millennio, non risponde più alle mutate esigenze della società attuale. Cambia la storia e, se si è veramente riformisti, deve cambiare anche la proposta riformista. Se vuole ancora essere l'erede di quella grande stagione, il Partito democratico deve, oggi, riconsiderare con attenzione e generosità (ripeto spesso e non a caso questo termine) le condizioni reali di una società precarizzata sul piano non solo economico e sociale ma esistenziale e umano. La condizione delle periferie e dei millenniais e, forse, dell'intero Mezzogiorno, incarnano, fisicamente e simbolicamente, tale drammatica realtà. Sul terreno più strettamente politico, ciò significa che, anziché dividersi in correnti autoreferenziali, anziché lasciarsi dominare dalle dinamiche del rancore e degli odi personali, tipiche della decadenza politica e foriere di sicure sconfitte, il Pd dovrebbe tornare a proporsi come centro vitale e propulsivo di una ampia alleanza fra le forze del lavoro e della produzione, dare voce e rappresentanza agli esclusi e agli emarginati (che non solo tali dal solo punto di vista economico) e a quel ceto medio disorientato che stenta a trovare una identità ed un ruolo sociale, e impegnarsi a pacificare un paese dilaniato, fra Nord e Sud, fra lavoratori del settore pubblico e privato, fra centri e periferie, fra lavoratori italiani ed immigrati. Insomma, se volessimo chiudere con uno slogan, ricostruire una grande, nuova alleanza fra sinistra radicale e sinistra riformista per proporsi come un grande partito nazionale, più che come Partito della nazione. Come, in fondo, era nel suo progetto fondativo.
Dalle prime dichiarazioni di alcuni esponenti del Partito democratico campano, sembra che l'uragano che ha travolto il governo Renzi e, in parte, il Pd, sia stata soltanto una fastidiosa vento di tramontana. Fosse questa l'analisi del voto, lo dico con profonda amarezza e non senza preoccupazione, il Partito democratico sarebbe già avviato sul sentiero della sconfitta elettorale e, forse, della dissolvenza. Il meno che potrebbe accadere sarebbe una devastante scissione. Il che potrebbe anche non preoccupare un cittadino non iscritto o non simpatizzante del Pd se non fosse che, all'orizzonte, non si intravedono alternative sulle quali poter contare con una certa serenità. Invece penso che si debba riflettere, con generosità prima ancora che con attenzione. Innanzitutto i dirigenti del partito, di quel che resta del partito, dovrebbero dimettersi (come, del resto, ha fatto Renzi, con l'unico gesto che ha incontrato il favore di tutti), per consentire, finalmente, ad iscritti e simpatizzanti di confrontarsi e discutere: sul passato e sul futuro. Una riflessione dovrebbero aprirla le cariche istituzionali, a cominciare dal presidente De Luca, che sembra aver riconosciuto che questa fase richiede, innanzitutto, umiltà, accennando forse in tal modo, ad una rigorosa, quanto necessaria, autocritica. È difficilissimo, naturalmente, in una fase così delicata, tracciare una linea politica alternativa allo sfascio al quale ci ha condotto una dissennata, tracotante ed infantile campagna referendaria.
Ma qualche spunto per la riflessione è doveroso proporlo. Ad esempio: bisognerebbe prendere atto che la comunicazione, in sé e per sé non basta. Viene anzi il momento che essa raggiunge l'effetto diametralmente opposto. Narrare che in Italia, in Campania o a Napoli, le cose stanno andando bene a colpi di battute e sketch più o meno efficaci non ha senso se la disoccupazione giovanile colpisce ormai quasi ogni famiglia, se la sanità pubblica e i trasporti deperiscono e declinano in un rovinoso ritorno agli anni Cinquanta. Non si può sostenere, con arroganza, che forse non si è riuscito a far comprendere ai docenti quanto buona fosse la "Buona scuola". Perché viene spontanea la risposta: "Più probabile che siate voi, forse, a non aver compreso nulla della scuola italiana". A dirla in altro modo, potremmo anche sostenere che il populismo che fa leva, con un certo cinismo, sul malessere profondo della popolazione non si può battere con il populismo di governo, delle false narrazioni, delle battute ad effetto, dei comizi politici trasformati in show televisivi nei quali perfino il linguaggio del corpo ispira antipatia. Altro tema di riflessione, che chiama in causa la mia cultura politica, è quello del riformismo da opporre al populismo. Dobbiamo prendere atto che il riformismo fiorito negli anni a cavallo del nuovo millennio, non risponde più alle mutate esigenze della società attuale. Cambia la storia e, se si è veramente riformisti, deve cambiare anche la proposta riformista. Se vuole ancora essere l'erede di quella grande stagione, il Partito democratico deve, oggi, riconsiderare con attenzione e generosità (ripeto spesso e non a caso questo termine) le condizioni reali di una società precarizzata sul piano non solo economico e sociale ma esistenziale e umano. La condizione delle periferie e dei millenniais e, forse, dell'intero Mezzogiorno, incarnano, fisicamente e simbolicamente, tale drammatica realtà. Sul terreno più strettamente politico, ciò significa che, anziché dividersi in correnti autoreferenziali, anziché lasciarsi dominare dalle dinamiche del rancore e degli odi personali, tipiche della decadenza politica e foriere di sicure sconfitte, il Pd dovrebbe tornare a proporsi come centro vitale e propulsivo di una ampia alleanza fra le forze del lavoro e della produzione, dare voce e rappresentanza agli esclusi e agli emarginati (che non solo tali dal solo punto di vista economico) e a quel ceto medio disorientato che stenta a trovare una identità ed un ruolo sociale, e impegnarsi a pacificare un paese dilaniato, fra Nord e Sud, fra lavoratori del settore pubblico e privato, fra centri e periferie, fra lavoratori italiani ed immigrati. Insomma, se volessimo chiudere con uno slogan, ricostruire una grande, nuova alleanza fra sinistra radicale e sinistra riformista per proporsi come un grande partito nazionale, più che come Partito della nazione. Come, in fondo, era nel suo progetto fondativo.