A Napoli travestito da inglese. L'ultima impresa di Mazzini (Lucio Villari)

Napoli - Il busto di Giuseppe Mazzini
«Caro Felice. Ho bisogno che mi mandiate nella giornata, prima di sera, quel bravo giovine parrucchiere che mandai una volta a Milano o altrove. Fate di tutto per trovarlo. Il tempo mi stringe e abbiate pazienza. Son gli ultimi impicci. Quel famoso paio di pantaloni è fatto? Bisognerebbe anche, se non è già fatto, ritirare da Posto la mia roba. Bisogna ch'io levi cose da quel sacco da viaggio e ve ne metta altre... V'è anche una borsa di quelle che si mettono al collo...».
Questo biglietto, sbrigativo e un poco misterioso, è inviato a un amico fidato a Genova ed è del 4 agosto 1870. Il tono è di qualcuno che ha urgenza di partire, ma l'ansiosa richiesta del giovane parrucchiere e di un famoso paio di pantaloni fa sospettare che ci sia sotto dell'altro. E infatti il viaggiatore vuole truccarsi da turista inglese. Ha già il passaporto intestato a George Rossi Brown ed ha bisogno di due vistose basette all'inglese (allora si chiamavano fedine o favoriti) e di pantaloni a grandi scacchi. La borsa a tracolla completerà il travestimento.
Questo signore è il cospiratore Giuseppe Mazzini che a nove anni dalla proclamazione dell'unità d'Italia, ha ancora un sogno, una meta da raggiungere: un'autentica sovranità del popolo italiano da contrapporre alla sovranità della monarchia dei Savoia, con l'obiettivo finale, dunque, della repubblica, e infine la liberazione di Roma dal potere temporale e la sua proclamazione a capitale d'Italia: la terza Roma, la Roma del popolo, già disegnata al tempo della repubblica del 1849. In quel caldo agosto del 70 Mazzini ha sessantacinque anni, è stanco e indebolito da una bronchite cronica asmatica (che egli accentua fumando robusti sigari); è anche deluso dagli ultimi tentativi insurrezionali da lui sostenuti: la rivolta operaia di Milano del 1853 e la spedizione di Carlo Pisacane del 1857, ambedue tragicamente fallite. Sì, aveva avuto successo la spedizione dei Mille nel 1860, con un Garibaldi vittorioso ma, ai suoi occhi, troppo monarchico, ed aveva avuto successo il disegno politico del liberale Cavour, un avversario forte e abile. Ambedue avevano realizzato il sogno mazziniano dell'unità ma senza Mazzini e senza Roma. A questo paradosso anche Garibaldi, alla fine, aveva cercato di porre rimedio con atti insurrezionali, ma nel 1862 era stato fermato in Aspromonte dall'esercito regio e nel 1867 era stato fermato a Mentana e a Villa Glori dall'esercito francese protettore del papa.
Improvvisamente, nell'estate 1870 lo scenario nazionale e internazionale stava cambiando e Mazzini pensò di scrollarsi di dosso la disillusione. Due giorni prima di scrivere il misterioso biglietto a Felice Dagnino, Mazzini, che era a Genova, vide la città insorgere e moltissimi genovesi, operai, studenti, donne alzare barricate contro le truppe accorse. Qualche giorno prima un analogo tentativo insurrezionale era stato fatto a Milano. L'occasione era stata una ingiusta sentenza contro un gruppo di patrioti genovesi arrestati e condannati dopo una pacifica dimostrazione repubblicana. A Milano l'ordine era stato subito ristabilito, a Genova i rivoltosi resistettero più a lungo. Mazzini era esultante: il suo obbiettivo di creare focolai politici rivoluzionari in varie parti d' Italia era condiviso da molti suoi compagni: da Genova alla lontana Sicilia. C'era anche una straordinaria e inaspettata congiunzione di eventi: pochi giorni prima, il 16 luglio, la Francia di Napoleone III aveva dichiarato guerra alla Prussia e le cose si erano subito messe male per l' esercito francese. Per Mazzini e per i democratici italiani l'imminente sconfitta della Francia apriva finalmente la via di Roma. Era il momento di agire: «Rompiamo, per Dio», scriveva Mazzini in quei giorni a Stefano Canzio, «questo fascino che ci tiene immobile sia la nostra Genova l'iniziatrice dell'impresa!». E all'amica Carlotta Benettini: «Ho fede nelle popolane di Genova. Bisogna prepararle a fare, mentr'io cerco d'innalzare la bandiera altrove. Bisogna che Genova, la mia Genova, se mai non riesce ad essere la prima città, sia almeno la seconda, che dia il segnale all'Italia della vera libertà. Bisogna che il giorno del sorgere sollevino quel grido Repubblica che fu quello dei nostri padri».
L'accenno alla bandiera da innalzare «altrove» e alla «prima città» dove avrà inizio la rivoluzione nazionale svela le ragioni del febbrile travestimento di Mazzini. Quello che egli sta per compiere è un gesto che, stranamente, i libri di storia hanno in gran parte trascurato. È l' ultima rivoluzione di Mazzini, il testamento di un politico complesso e incompreso, il gesto finale di un uomo privo ormai di forza fisica (Mazzini morirà un anno e mezzo più tardi), ma dalla eccezionale energia ideologica. Da qualche tempo i suoi compagni siciliani gli parlano di un fuoco repubblicano che cova sotto la cenere a Palermo e in altre località dell' isola. Mazzini è convinto che recandosi di nascosto a Palermo può guidare un movimento insurrezionale che poi dilagherà nel continente. Partirà con alcuni amici spacciandosi, appunto, per un tranquillo signore inglese. Il parrucchiere gli ha tagliato la barba e applicato con il mastice delle fedine rossicce. Il viaggio prevede il tragitto in treno da Genova a Napoli; breve sosta nella città e imbarco sul battello di linea per Palermo. Prima della partenza Mazzini scrive decine di lettere e prepara proclami politici da diffondere in Italia mobilitando dappertutto il «partito» repubblicano. Poche ore prima di salire sul treno insieme a Agostino Bertani e Aurelio Saffi, Mazzini scrive poche, essenziali righe a un amico di Firenze. È il pomeriggio del 12 agosto: «Fratello, quando avrete mie linee, sarò - se non mi arrestano prima - in Sicilia. Intenderete che non vado in cerca del caldo o per contemplare l'Etna. Tenetevi dunque all'erta: se udite di moto, è mio, nostro quindi: se riesco, faccia ognuno ciò che deve, ciò che può. In caso diverso, avrete finito d'essere tormentati da me». È una lettera senza retorica, quasi un commiato. Il viaggio, notturno, fu tranquillo fino a Bologna, quando nello scompartimento entrò una giovane e bella signora che cominciò a scrutare Mazzini, come fosse sorpresa dal suo strano abbigliamento. I cospiratori si lanciarono sguardi interrogativi: era forse una spia della polizia? La signora disse che si recava a Palermo, e Mazzini sussurrò a Saffi che probabilmente sarebbero stati arrestati. A mezzogiorno giunsero a Napoli: la signora era scomparsa (in verità, non era affatto una spia) e Mazzini e gli altri scesero all'Hotel de Genéve, in attesa di imbarcarsi. Ma proprio a Napoli la stanchezza giocò un tiro mancino a Mazzini. Dalla sua camera ordinò al cameriere una scatola di sigari. Nell'attesa staccò dal viso i fastidiosi favoriti senza chiudere la porta a chiave. Il cameriere entrato con i sigari guardò stupito Mazzini. L'aveva riconosciuto. Mazzini, Bertani e Saffi decisero di cambiare immediatamente alloggio. Lungo le scale trovarono tutti i camerieri dell'albergo schierati e deferenti verso l'illustre ospite.
Una scena da commedia, ma Mazzini pensò di sfuggire al possibile arresto rimandando la partenza al giorno successivo. Ricorda Saffi che «il mutamento di domicilio a Napoli non aveva però giovato gran che al segreto». Infatti, al momento della partenza molta gente andò a salutarlo. Il risultato fu che appena sbarcato a Palermo Mazzini fu arrestato e imbarcato di tutta fretta sul vapore Ettore Fieramosca. Poche ore dopo la nave faceva rotta per Gaeta nel cui carcere militare fu rinchiuso. Vi rimase fino a metà ottobre 1870. L'arresto provocò una grande emozione in Italia, dove frattanto gli avvenimenti incalzavano e, dopo la caduta di Napoleone III, il 20 settembre Roma veniva occupata dall'esercito italiano. Un altro sogno mazziniano si realizzava senza, anzi, contro di lui. Paradossalmente, Mazzini uscirà dal carcere per l'amnistia decretata dal re il 9 ottobre 1870 per festeggiare la liberazione di Roma. Dal forte di Gaeta Mazzini scriveva a Giannetta Rosselli: «E l'Italia, la mia Italia, l'Italia com'io l'ho predicata? L'Italia dei nostri sogni? L'Italia, la grande, la bella, la morale Italia dell' anima mia?...».
Quell'Italia gli aveva spezzato l' ultima utopia di una «rivoluzione nazionale» che fondasse una repubblica democratica. Da Roma, prima sosta nel viaggio di ritorno a Genova, scriveva a un amico il 17 ottobre: «Noi abbiamo lasciato che si compisse la profanazione di Roma colla Monarchia. Il duplice mio sogno è sfumato. E io, vi ripeto, ho l'anima a bruno. Dovreste averla voi tutti».


“la Repubblica”, 12 maggio 2005  

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